Guillermo del Toro: l'ossessione del meraviglioso - Taxidrivers.it

2022-03-02 09:57:59 By : Ms. Jenny zhai

Appena uscito sugli schermi italiani con La fiera delle illusioni, Guillermo del Toro è un regista divisivo, amato per la sua capacità affabulatoria e la messa in scena del meraviglioso e di un mondo personale dove i miti, le leggende e le favole dialogano con la storia del cinema e con quella del Novecento.

Allo stesso tempo autore poco apprezzato dai suoi detrattori a causa del suo barocchismo e per il mostruoso troppe volte presentato al pubblico con malcelata compiacenza. Noi apparteniamo al primo gruppo e brevemente affrontiamo le caratteristiche del suo cinema attraverso la sua filmografia. Un’occasione per un ripasso dei suoi film e un momento di riflessione per conferme o ripensamenti.

In attesa dell’uscita di Pinocchio, l’ultimo lavoro in stop-motion che sarà trasmesso su Netflix alla fine del 2022.

Guillermo del Toro nasce in Messico a Guadalajara il 9 ottobre 1964 da una famiglia piccolo borghese. Il cinema del regista si nutre di ossessioni che hanno origine fin dalla tenera età e in ambito familiare: una nonna cattolica devota e praticante, una madre poetessa e accanita lettrice di tarocchi, uno zio che lo introduce alla narrativa horror con una certa predilezione per le storie scritte da H. P. Lovecraft ed Edgar Alla Poe.

Si laurea in cinema presso l’università della sua città, specializzandosi in sceneggiatura. Appassionato lettore di fumetti horror e romanzi di genere, affascinato dalle maschere e dal funzionamento di marchingegni e giocattoli, dopo gli studi, segue i seminari e i laboratori di Dick Smith, specialista in effetti speciali e trucco che ha lavorato in molte produzioni americane (Il padrino, L’esorcista, Taxi Driver, Il cacciatore).

Questa sua passione lo porta a fondare con il suo amico e sodale Rigo Mora nel 1985 Necropia, azienda specializzata in effetti speciali e per tutti gli anni Ottanta lavora per la televisione messicana in particolare per la serie Hora Marcada, una sorta di versione messicana di Ai confini della realtà dove avrà anche la possibilità di sceneggiare diversi episodi e di dirigerne alcuni.

Ma la passione per il cinema del Toro la pratica anche come critico cinematografico scrivendo recensioni per la rivista britannica Sight and Sound e per diversi periodici del suo paese, fino a pubblicare una monografia su Alfred Hitchcock, uno dei suoi maestri cinematografici.

La sua bulimia artistica continua anche in seguito, dopo che ormai è diventato un regista affermato e trasferitosi a Hollywood, prima con la scrittura, insieme a Chuck Hogan, di The Strain una trilogia di romanzi horror che narra di un’epidemia che trasforma le persone in esseri vampireschi, per poi creare una serie televisiva di successo, andata in onda sul canale FX in 4 stagioni e 46 episodi tra il 2014 e il 2017.  Guillermo del Toro è lo showrunner, sceneggiatore e regista del pilot. Non sarà l’unica: si ripete con Trollhunters, serie animata fantasy andata in onda su Netflix dal 2016 al 2018, divisa in tre stagioni e 52 episodi.

Gli eroi di Guillermo del Toro, siano essi uomini, donne o bambini, si confrontano spesso con il Male che alligna nella Storia. La Guerra Civile spagnola fa da sfondo a La spina del diavolo e a Il labirinto del Fauno, partendo proprio da un punto di vista infantile: i bambini dell’orfanotrofio della prima pellicola e la giovane protagonista della seconda che deve scontrarsi con il patrigno, ufficiale franchista che dà la caccia ai partigiani nella campagna spagnola. Così come Hellboy, personaggio principale dell’omonimo film, ha la sua apparizione durante la Seconda Guerra mondiale in cui gli alleati si scontrano contri i nazisti.

Le guerre in questo senso diventano incubatori del Male assoluto con cui persone comuni e freaks di varia natura devono fare i conti. Il mostro nel cinema di Guillermo del Toro diventa una figura borderline in cui convivono il Bene e il Male in un perenne lotta per l’affermazione del primo. La mostruosità diviene così sinonimo di diversità, di ricerca di accettazione all’interno di una comunità oppure di amori impossibili.

Esempi  li abbiamo con lo stesso Hellboy, demone infernale che però agisce all’interno di un’organizzazione governativa che combatte le forze del male, siano essi nazisti oppure altre entità mostruose. O il mostro amazzonico in La forma dell’acqua catturato dall’esercito americano che in piena Guerra Fredda negli anni Cinquanta è sottoposto a torture dal suo aguzzino e salvato da una giovane donna muta addetta alle pulizie nella base segreta, innamoratasi perdutamente. O ancora il vampiro Blade, cacciatore di altri vampiri di cui Guillermo del Toro gira il secondo episodio della saga a lui dedicata.

Tutti i personaggi agiscono sempre in un mondo dove la realtà confina con l’immaginazione, presente in modo immanente e che ci circonda. L’immaginario del regista messicano si alimenta dalle fonti più disparate: dai fumetti di fantascienza e di horror degli anni Cinquanta e Sessanta alla letteratura gotica e noir, dal cinema di fantascienza degli anni Cinquanta alle storie di fantasmi ottocentesche. Le sue sono alla fine nere favole per adulti in cui l’accumulazione di simboli, elementi teratologici e oggetti magici o fantastici compongono una messa in scena complessa. L’inquadratura è sempre su porzioni di realtà in cui sia l’interno sia l’esterno riempono la visione dello spettatore.

Un’accumulazione a cui concorrono spesso anche una colonna sonora dai toni corposi, una fotografia con una palette di colori bruni, oscuri, pastello, che predilige i forti contrasti di luce e la materialità dell’oscurità. Il tutto accompagnato dalla ricerca del dettaglio da inquadrare e dai movimenti di macchina sinuosi, penetranti e avvolgenti. In una ricchezza visiva che introduce lo spettatore in un mondo fantastico all’interno di un immaginario collettivo condiviso.

Il senso del tempo e dell’immortalità. Rielaborando leggende sui vampiri, Guillermo del Toro mette al centro uno strano oggetto creato da un alchimista nel Cinquecento e giunto in una vecchia bottega di antiquariato in Messico. Un meccanismo al cui interno c’è un vero insetto che allunga la vita a chi ne è posseduto, ma il cui prezzo per l’immortalità è la continua sete di sangue. I protagonisti sono Jesus Gris (Federico Luppi), anziano antiquario, e la nipote Aurora il cui amore lo salverà dalla dannazione eterna.

Prima prova del giovane regista con alle prese la messa in scena delle sue ossessioni tra religione, storia, vampirismo, mostruosità e scontro tra Bene e Male. Un del Toro ancora acerbo in cui si notano le potenzialità di una visione originale del mondo.

Ancora insetti, ancora bambini. Nella prima trasferta in terra americana Guillermo del Toro racconta di un’epidemia a New York che uccide i bambini colpiti da un virus diffuso da un insetto. Una coppia di scienziati, Susan Tyler (Mira Sorvino) e Peter Mann (Jeremy Northam), combina Dna creando una nuova specie di insetto che uccide quelli portatori del virus. Ma la nuova specie cresce e si adatta alla società umana copiando l’uomo e diventando una minaccia. I due, con l’aiuto di un poliziotto, di un bambino autistico e di suo padre, arresteranno il pericolo nelle buie gallerie della metropolitana newyorkese sacrificandosi in prima persona.

Ancora l’ossessione per gli insetti, ancora il Male che si nasconde e prospera nell’oscurità delle metropoli. Per il regista è un mezzo passo falso con problemi realizzativi e la forte intromissione della produzione che castra la volontà di del Toro limitando la sua autonomia artistica.

Dopo la prima spiacevole esperienza produttiva americana, Guillermo del Toro si rifugia in Europa. Riprende una sua sceneggiatura e mette in scena una storia di fantasmi e di morte ambientata nel 1939 in Spagna alla fine della Guerra Civile. Protagonisti sono un gruppo di bambini all’interno di un piccolo orfanotrofio periferico, isola di resistenza al Male esterno che li coinvolge, li penetra e li uccide.

Ritroviamo l’attore Federico Luppi che interpreta Cesares che, insieme a Carmen (Marisa Paredes), gestisce in qualche modo l’istituto ergendosi a difensore del piccolo mondo fanciullesco. Opera poetica, prima prova in cui si può apprezzare la mano del regista divenuta matura e padrona del mezzo filmico che ha pieno potere sulla materia filmica. Una delle pellicole da cui iniziare per apprezzare del Toro.

Con questa pellicola il regista pendolare ritorna sui set hollywoodiani dando prova di essere capace di gestire scene di azione spettacolari.

In Blade Guillermo del Toro ritrova l’amore per le storie sui vampiri, rielaborando il personaggio interpretato da Wesley Snipes e introducendo elementi tipici del suo cinema come lo sviluppo della mostruosità, l’amore impossibile tra il protagonista e la figlia del principe della stirpe dei vampiri, la lotta per il potere tra fazioni, tradimenti, alleanze e sacrifici.

Il regista messicano dirige con maestria e divertimento per se stesso e per il pubblico un’altra favola nera di amore e morte.

L’incontro con il fumetto cult di Mike Mignola era destino per il regista messicano. Guillermo del Toro si appropria del personaggio e con uno dei suoi attori feticcio, Ron Perlman, trasporta dalle tavole disegnate allo schermo il demone-umano Hellboy, principe delle tenebre.

Grazie all’interpretazione dell’attore americano, che dona una profondità psicologica al personaggio e lo rende empatico e pieno di sfaccettature emotive dietro il pesante trucco, del Toro mette insieme un mondo fantastico originale e riconoscibile in cui travasa tutta la sua immaginazione visiva e la sua conoscenza dei fumetti, con riferimenti storici e letterari rielaborati attraverso un sense of wonder nella composizione di maschere, oggetti e scenari da incubo.

Ancora la Spagna e la Guerra Civile. Siamo nel 1944 e Carmen (Ariadna Gil) giovane donna incinta, con Ofelia (Ivana Baquero) la piccola figlia del suo primo matrimonio, raggiunge il capitano Vidal (Sergi López), sadico ufficiale franchista e padre del prossimo nascituro, al comando di un avamposto del regime. In un ambiente violento e pieno di tensioni, oggetto dell’ostilità del patrigno, Ofelia si rifugia in un mondo di fantasia. La vicinanza di un grande albero e l’incontro con un fauno che lo abita introducono la bambina in una realtà parallela. Attraverso diverse prove a cui la sottopone il fauno, Ofelia scopre il suo vero destino di appartenente a un mondo meraviglioso lontano dal dolore e dalla ferocia della guerra.

Scritto, diretto e co-prodotto da Guillermo del Toro che crea la sua opera migliore, in cui inserisce con equilibrio i temi a lui confacenti del contrasto tra la tragedia della realtà e la felicità del fantastico. Presentata in concorso al Festival di Cannes, la pellicola ha un grande successo di pubblico e un notevole riscontro di critica. Vincitore di molteplici premi, è candidato all’Oscar come miglior film straniero e si aggiudica quelli per la miglior fotografia, scenografia e trucco.

Il ritorno di Hellboy in grande stile. Guillermo del Toro ritorna nel mondo fantastico del “buon diavolo” insieme a Ron Perlman e ai suoi amici.

Spingendo sul pedale del fantasy più estremo, il regista messicano elabora una leggenda di una guerra tra umani ed elfi, la creazione di un’armata robotica invincibile (la Goldem Army del titolo) e la trasporta ai giorni nostri. Hellboy deve affrontare il principe Nuada (Luke Goss), figlio del re degli elfi che prima ha combattuto gli umani e poi ha sottoscritto la pace. Il re rompe la corona con cui comandava l’armata in tre pezzi, ma Nuada è contrario e vorrebbe distruggere gli umani. Così uccide il padre e scatena una serie di creature malvage pur di impossessarsi della corona. Ma la sorella gemella Nuala (Anna Walton) si rivolta contro il fratello e chiede aiuto a Hellboy.

Del Toro agisce su due linee tematiche: da un lato, approfondisce sempre più le psicologie dei personaggi e le loro relazioni, dall’altro dà massimo sfogo alla sua creatività.

Così, dopo la perdita del padre putativo avvenuta nel precedente episodio (interpretato da un prezioso John Hurt), vediamo svilupparsi la relazione tra Hellboy e la sua fidanzata pirocinetica Liz (Selma Blair), fino all’annuncio che sarà padre. Mette in scena la nascita di un sentimento amoroso tra l’uomo-pesce Abe e la principessa Nuala, insieme al rapporto conflittuale tra i due gemelli elfi. Infine, abbiamo le relazioni della famiglia allargata del gruppo di freaks e i problemi con il pubblico che scopre le loro identità.

Sull’altra linea narrativa, Guillermo del Toro crea un puzzle tra leggende elfiche, troll, goblin, rubando a piene mani da fonti letterarie che vanno da Tolkien a Lovecraft, e creando una teratologia ipertrofica che costringe la troupe tecnica a realizzare più di trenta creature differenti presenti sulla scena. Non solo la CGI ma soprattutto il profilmico diventa espressione di stile della regia di Guillermo del Toro.

Grande successo di pubblico (incassa più di 180 milioni di dollari world wide) e apprezzamento da parte della critica per un’opera dove il senso del meraviglioso arriva nella sua pienezza visiva.

Mecha contro Kaiju. Con questo film il regista messicano realizza un suo sogno: quello di mettere insieme i robot giganti e i mostri preistorici della narrativa giapponese.

Lo scontro tra gli esseri umani e i mostri giganteschi che arrivano sul pianeta portando distruzione e morte attraverso una breccia interdimensionale sottomarina permette a Guillermo del Toro di raccontare una storia di amicizia, fratellanza, amore e morte mischiando horror, avventura e fantascienza.

Il regista messicano costruisce i robot ispirandosi ai fumetti giapponesi di Goldrake, Mazinga, ma soprattutto, Gundam su cui viene modellato lo Jaegers guidato da Raleigh Becket (Charlie Hunnam), prima insieme al fratello e poi con la giapponese Mako Mori (Rinko Kikuchi).

I Kaiju si rifanno alla tradizione di Godzilla del cinema giapponese degli anni Cinquanta, ma la fonte primaria sono le creature cosmiche lovecraftiane, altra passione del regista messicano. Con una colonna sonora ritmata e potente, una scenografia maestosa, movimenti di macchina che prediligono inquadrature con campi lunghi e lunghissimi e un montaggio meno serrato, così da amplificare gli scontri tra i colossi per una loro migliore visione, Guillermo del Toro organizza un grande spettacolo dove la tragedia va di pari passo con la commedia, la grandiosità dei combattimenti con l’intimità dei rapporti tra i personaggi. Ancora una volta un’organizzazione di un mondo dove lo stupore è presente in ogni scena.

Un’altra storia di fantasmi. Da lui scritto e coprodotto, qui Guillermo del Toro affronta questa volta una storia che riprende stilemi della letteratura gotica ottocentesca.

La giovane americana Edith Cushing (Mia Wasikowska) incontra Thomas Sharpe (Tom Hiddleston), un nobile inglese in trasferta alla ricerca di fondi per una macchina estrattrice di argilla rossa nella sua tenuta. S’innamorano e si sposano, dopo che il padre muore misteriosamente, e si trasferiscono nella tenuta di Crimson Peak diretta da Lucille (Jessica Chastain) sorella di Thomas.

Ben presto però le intenzioni di Thomas e, soprattutto, della sorella sono ben altro che l’amore e l’amicizia, e se prima il fantasma della madre e poi quelli della magione l’avvisano del pericolo sono la sua scaltrezza e la curiosità che le rivelano il rapporto incestuoso tra i due e gli efferati omicidi delle donne sposate da Thomas per appropriarsi delle loro ricchezze.

Il regista messicano omaggia pellicole come Gli invasati e Suspense, riprendendo i temi della presenza dei fantasmi già presenti in sue pellicole precedenti e le relazioni fraterne problematiche come in Blade II e Hellboy: The Golden Army. Dopo una prima parte introduttiva, la pellicola decolla quando mette in scena la grande casa dei Thomas che diventa non solo l’ambiente solitario, freddo e oscuro pieno di segreti e fantasmi, ma una vera e propria protagonista pulsante di emozioni tra i vivi e i morti.

Guillermo del Toro muove la macchina da presa in una danza tra le scale, i corridoi, le camere dal letto, la cucina, la soffitta e le cantine che si trasforma in un’immersione scopica dove il profilmico e la scenografia trasformano le sequenze in un’esperienza visiva per lo spettatore. Opera pregna di nostalgia e romanticismo, venata di un pessimismo sulla caducità umana che nemmeno l’happy end può sminuire.

Stati Uniti 1962. In piena Guerra Fredda il colonello Richard Strickland (Michael Shannon) cattura un mostro anfibio antropomorfo e lo rinchiude in una base segreta dell’esercito. Elisa (Sally Hawkins), giovane donna addetta alle pulizie, prima s’incuriosisce attratta dall’essere, poi inizia a comunicare con lui attraverso il linguaggio dei segni e poi si innamora. Con l’aiuto della sua amica e collega Zelda (Olivia Spencer), del suo coinquilino Giles (Richard Jenkins) e dello scienziato, spia sovietica pentita, dott. Hoffstetler (Michael Stuhlbarg), lo fa evadere dalla prigionia per liberarlo, ma dovranno fare i conti con Strickland.

Omaggiando in modo esplicito Il mostro della laguna nera, classico della fantascienza degli anni Cinquanta diretto da Jack Arnold, il regista messicano mette in scena una favola sulla diversità e sull’amore senza tempo. Sono presenti tutti i temi del cinema di Guillermo del Toro: dall’amore per la mostruosità alle imitazioni e citazioni cinefile, dalla Storia presa in momenti specifici come fonte di conflitto e generatore del Male alla solidarietà di comunità tra spiriti affini.

Elisa, Giles e Zelda rappresentano dei losers agli occhi della società, sono maschere e allo stesso tempo simboli di discriminazione: siano essi per limitazioni fisiche (Elisa) o per l’orientamento sessuale (Giles) oppure per il colore della pelle (Zelda). L’acqua in questo caso diventa metafora di rinascita e di mutamento, elemento vitale che si contrappone alla sua valenza di morte espressa in altre opere (come in La spina del diavolo, Blade II, Pacific Rim oppure Crimson Peak).

Del Toro lavora sull’immaginario cinematografico (Elisa e Giles vivono sopra a un cinema) e immerge la macchina da presa nella liquidità dei sentimenti, della luce e delle ombre delle immagini che riempiono lo sguardo dello spettatore.

Successo di pubblico e di critica: incassa quasi 200 milioni di dollari, premiato con il Leone d’oro alla Mostra di Venezia e vincitore agli Oscar per miglior film, regia, scenografia e musiche di Alexandre Desplat.

Ultimo ma non ultimo (vista l’attesa per Pinocchio), Guillermo del Toro affronta il genere noir adattando il romanzo omonimo di William Lindsay Gresham.

La fiera delle illusioni  Nightmare Alley Torna Del Toro ma non convince

Ambientato nel mondo dei carnival, le fiere itineranti con baracconi dove si esibivano artisti e veri e propri freaks, il regista messicano gira, forse, il suo film più maturo, dove ha abbandonato il mondo dell’infanzia e della favola per raccontare le vicende di Stanton “Stan” Carlisle (Bradley Cooper), dal suo arrivo in uno di queste fiere, l’apprendistato delle regole per un numero di mentalismo, al suo passaggio negli spettacoli dei club della metropoli fino alla sua fuga, dopo una fallita truffa ai danni di un ricco industriale con la complicità di Lilith Ritter (Cate Blanchett) psicologa più cinica e spietata del protagonista.

La rappresentazione dell’ascesa e del declino di una personalità border line racconta la mancanza di scrupoli di fronte alle debolezze umane e alla credulità delle persone colpite da drammi personali e lutti. Guillermo del Toro compie un lavoro di rielaborazione del genere noir, mantenendo inalterato la sua messa in scena teratologica (in particolare nella prima parte) e lavorando sulla sua cifra stilistica dell’accumulo simbolico e del profilmico, dove scenografia e costumi ricostruiscono un’epoca, quella dell’inizio della Seconda guerra mondiale, in cui ancora una volta episodi epocali della Storia sono produttori di malvagità umana.

Un’opera complessa che non ha avuto un positivo riscontro dal pubblico e che ha diviso la critica. Distribuita per pochi giorni negli Stati Uniti anche la versione in bianco e nero dal titolo Nightmare Alley: Vision in Darkness and Light.

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