Pasolini, un oscuro scandalo della coscienza (di N. Vendola) - HuffPost Italia

2022-05-13 17:55:12 By : Mr. Colin Chen

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Occorrerebbe salvare Pasolini dai pasoliniani, metterlo al riparo dagli apologeti con la stessa intransigenza con cui lo difendiamo dai denigratori. Occorrerebbe liberarlo da quell’aura di profetismo che troppo spesso coglie il suono, ma non il senso di una produzione sconfinata di parole, di versi, di immagini, di analisi, di resoconti, di racconti. Lo dico con una battuta: penso che Pasolini avrebbe guardato con un certo sgomento le celebrazioni per il suo centenario, abiurando dalla sua riduzione a oggetto pop per il consumo di massa.

Occorrerebbe impedirne l’uso, anzi l’abuso, in forma di gadget politico-ideologico buono per tutte le cause: buono per i riformatori ma anche per i conservatori, buono per la sinistra con i suoi infiniti sensi di colpa per i suoi infiniti peccati di indole compromissoria ma buono anche per la destra con i suoi fangosi esorcismi e i suoi conti truccati col passato. Se persino Giorgia Meloni tenta un reclutamento postumo di Pasolini, collocandolo in un Pantheon che funge da lavanderia del post-fascismo, vuol dire che è consentito pure il vilipendio di cadavere. Vuol dire che esiste e circola un Pasolini che prescinde da Pasolini, dal senso di ciò che ha scritto, da ciò che ha fatto, da ciò che è stato.

E dunque penso che l’unico modo di onorare o celebrare o amare Pasolini sia conoscerlo e riconoscerlo nello spazio-tempo che ha abitato, attraversandone l’esperienza e le contraddizioni, cogliendo i nessi tra i molteplici registri del suo lavoro intellettuale, interrogando lui e non il suo fantasma o il suo manifesto pubblicitario o il suo ologramma, piuttosto restituendogli la parola, le parole, penetrando il suo dolore, le sue ossessioni, il senso e la forma delle sue inquietudini.

Per questo è necessario ripristinare le virtù di un confronto critico a tutto campo, di una ricognizione che non sfugga all’estrema e persino abbagliante complessità di un percorso che dai suoi esordi friulani, quelli che celebrano l’innocenza primigenia di un mondo quasi ai margini della storia, fino all’iperrealismo apocalittico di “Petrolio”, dall’eros felice di “Amado mio” fino alla pornografia funebre e letteraria del Salò-Sade, è un continuo e vieppiù drammatico inseguimento e scontro tra poesia e storia, una contesa aspra e senza fine possibile tra la fissità sublime e sacrale della pasoliniana “estetica passione” e il feroce devastante immedicabile mutamento del tempo, del tempo storico, cioè di un tempo ontologicamente estraneo alla poesia e nemico della poesia.

L’iconizzazione “eroica” di Pasolini, con il suo recupero politico tra i simboli della rivolta anti-sistema, si nutre ovviamente di cibo pasoliniano, ovvero di un’antologia di citazioni e magari aneddoti in genere avulsi dal loro contesto reale e dal loro sistema di significati: penso a quella costante autobiografia cristologica che pare proiettarsi nella biografia del poeta come una sorta di lunga premonizione, penso al suo peregrinare in tutte le periferie del mondo esaltandone l’antropologia alternativa, penso alla questione spesso semplificata della sua “diversità” (diversità di statuto intellettuale prima che di orientamento sessuale), penso alla sua milizia corsara e alla sua pedagogia luterana, penso al suo essere la preda prelibata dell’attività venatoria del perbenismo piccolo-borghese: tutti questi elementi, e il loro incrocio permanente e scandaloso, ingenerano equivoci interpretativi che riducono la sua singolare e straordinaria vicenda ad una vulgata resistenziale, a una mitologia che rimuove la pur evidente e persino esibita cifra ideologica del suo impegno e della sua arte.

Uso una comparazione volutamente provocatoria e mi perdonerete. Più che a un Che Guevara della letteratura il poeta di Casarsa a me pare somigliare (mutatis mutandis) al grande scrittore nipponico Yukio Mishima: al netto dei rituali marziali e della nostalgia imperiale, ciò che colpisce in entrambi è la totalitaria e drammatica espressione di un conflitto irriducibile con ciò che possiamo definire mutamento storico o anche modernità. Ed entrambi sembrano accomunati dall’epilogo di una morte violenta e spettacolare, annientati entrambi, come in un set cinematografico, dal mondo che rifiutavano di abitare: Mishima suicidandosi insieme al suo amante secondo il rito del seppuku praticato dai samurai, Pasolini schiacciato proprio come il corvo di “Uccellacci uccellini”, in quella notte di novembre del 1975, all’idroscalo di Ostia. Mi scuso ancora per questa comparazione, ma è una suggestione che mi piace usare solo per mettere in guardia dalle retoriche del pasolinismo.

Già nelle sue prime opere – penso a “Poesie a Casarsa” pubblicato nel 1942, e confluito nel 1954 ne “La meglio gioventù”, penso a “L’Usignolo della Chiesa Cattolica” pubblicato nel 1958 ma che raccoglie poesie scritte tra il ’43 e il ’49 – emerge con nettezza il sentimento e l’intenzione della poetica pasoliniana, che strutturano una sorta di mito fondativo: quello relativo all’esistenza di un mondo arcaico, incontaminato, innocente, ancora abitato dalla dimensione del sacro. In particolare in quella sua prima raccolta Pasolini esordisce col dialetto, nella lingua materna che è anche la lingua dei contadini, che appare come un codice comunicativo puro e fiabesco, una trama ineffabile di musicalità infantile e iperletteraria. E su quel calco linguistico-sociale, che poi replicherà negli altri luoghi mitici della sua perenne fuga dalla contemporaneità, Pasolini edifica il suo sacrario alla sensualità e alla purezza del passato e della tradizione. Il dialetto, questa preziosa reinvenzione di un parlato mitico e corporale, questa creazione popolare ma anche elitaria, sarà il rifugio della poesia, lo strumento dello struggimento e della nostalgia, il viatico per quel “regresso” che è l’unica salvifica alternativa a un progresso fondato sull’omologazione alla lingua mercantile del consumismo e sulla progressiva sparizione-soppressione dei dialetti. Casarsa e il Friuli, nella loro suggestione idilliaca e metastorica, sono lo scenario in cui si svolge il conflitto tra natura sorgiva dell’adolescenza e natura corruttiva dell’età adulta. Ed è davvero un conflitto archetipico: quello tra padre e figlio, tra il Dio giudaico-cristiano e il figlio unigenito che si incarna nell’umano, tra un Dio disciplinare e repressivo e un Cristo diverso e sovversivo, tra l’Autorità che vive nella storia e la libertà che vive nella poesia.

Ed è straordinariamente evocativa del nodo che stringe tutta la scrittura poetica pasoliniana l’ultima sezione de “L’Usignolo”, intitolata “La scoperta di Marx”, che rappresenta una sorta di anticipazione o annuncio di ciò che costituirà l’oggetto esemplare del dialogo accorato e perentorio de “Le ceneri di Gramsci”, e cioè la confessione di una adesione razionale ma non emotiva, non sentimentale, non sincera alla realtà delle lotte per l’emancipazione sociale delle masse più povere della società italiana. Pasolini, a epigrafe del poemetto, cita Maksim Gor’kij che a proposito dell’amore degli intellettuali verso il popolo dice: “non è amore: è meccanica inclinazione verso le masse”: in questo senso i versi pasoliniani sono illuminanti:

“Ma il peso di un’età/che forza la coscienza/e modella il dovere,/

quando in me avrà/vinto la resistenza/del mio cuore leggero?/

se, con te, non ho anima/d’amore, ma una fiamma/di lieve carità”

Appunto, una “fiamma di lieve carità”, cioè uno sguardo esterno ed estraneo al “dover essere” di un tempo storico che invece reclama il fuoco e il cuore pesante dell’intellettuale engagé. E invece di “cuore leggero” sarà il comunismo di Pasolini, un sentimento di superficie, un vincolo esteriore, una superfetazione della ragione, non una connessione sentimentale, non un richiamo delle viscere.

E tuttavia alla dignità operosa e combattiva del suo Friuli contadino dedicherà le pagine del romanzo Il sogno di una cosa, che saranno il racconto di quell’altro Mezzogiorno collocato nell’estremo nord del Paese, con le lotte per l’imponibile di manodopera e contro il latifondo, cioè contro le persistenze feudali nell’Italia del dopoguerra. Il titolo di questo romanzo è una citazione da Marx, da una frase straordinaria e illuminante che il cantore di Casarsa aveva appreso durante una conversazione con Franco Fortini. La citazione dice così:

“apparirà chiaro come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa della quale non ha che da possedere la coscienza per possederla realmente”.

Mi piace ricordare queste parole in un’epoca così povera di sogni e di coscienza. Tuttavia resta, in Pasolini, la realtà di un marxismo impotente e come intrappolato nella gabbia epistemologica della propria costitutiva separatezza di intellettuale borghese. Resta, persino per i contadini in lotta nella sua terra materna, una “fiamma di lieve carità”.

E mentre si va compiendo anche traumaticamente la sua parabola friulana, nello stile, nei temi, nella direzione poetica è già matura la contraddizione che nutrirà, arricchirà, sospingerà sempre verso nuove mete la peregrinazione intellettuale di Pasolini, capace di una grandiosa quanto acuminata diagnosi della ferita che fonda la sua arte. Perché appunto è già negli anni 40 che emerge e negli anni 50 esplode l’elemento della dissociazione tra la storia esteriore (che è quella abitata dalla borghesia, da tutte le istituzioni, dalla Chiesa, persino dal Partito e dal proletariato) e la storia interiore (che è quella abitata dalla musica dell’infanzia, dal ventre materno, dal dialetto, dalla poesia, da tutte le periferie che resistono ai processi di modernizzazione), la giustapposizione per l’appunto tra storia tout court e poesia, il contrasto tra passione e ideologia: due parole legate da una “e” che, come ci ricorderà Pasolini stesso, non congiunge ma contrappone, che non è un’endiadi ma un ossimoro.

Gli anni friulani si concludono con la vicenda dolorosa della denuncia di Pasolini per atti osceni e la conseguente espulsione dal Partito Comunista per indegnità morale. Quel primo duro confronto con le cose della giustizia fu una specie di battesimo alla sua ricca carriera processuale: Pasolini ebbe nel corso della sua vita circa 120 denunce e frequentò i tribunali per almeno 20 procedimenti penali, con un curriculum giudiziario che in qualche modo irrobustiva la sua percezione di una deriva o di una dannazione martirologica. Costretto a fuggire dal nido friulano insieme a sua madre, troverà riparo a Roma, nella splendida e degradata capitale di un’Italia che si stava evolvendo dal suo contesto prevalentemente rurale, nella città delle antiche rovine archeologiche e delle moderne rovine di periferie, dove lui scoprirà un nuovo sconfinato deposito di poesia, un nuovo popolo senza tempo ed estraneo alla storia ufficiale, un sottoproletariato che lui amerà nel suo splendore e nella sua miseria: corpi e luoghi a cui consegnarsi, un incrocio di perdizione e salvezza che gli consentirà di frequentare una nuova dimensione del mito e della sua lingua, cioè il romanesco, una lingua carnale e premoderna inseminata di poesia e refrattaria al monolinguismo dell’Italia televisiva.

E dunque in questa stagione artistica, in singolare sintonia con il suo lavoro teorico nella rivista Officina, il poeta-intellettuale scava dentro il cratere delle sue contraddizioni ideali e ideologiche, offrendo la più chiara e sofferta esibizione di quel “dramma irrisolto”, di quella “ossimorica” contrapposizione di poesia e storia, di “passione” e “ideologia” che nutrirà tutta la sua poliedrica avventura nella vicenda della cultura novecentesca, attraverso una febbrile sperimentazione di registri formali (Pasolini fu poeta, romanziere, saggista, drammaturgo, polemista, sceneggiatore, cineasta), ma con una unitarietà di fondo della sua ricerca che non fu mai, in nessun momento, esercizio di eclettismo o esibizione erudita, bensì ansia di “regresso”, rivendicazione del proprio anacronismo, critica nei confronti dei processi di secolarizzazione, fuga dal mondo dello sviluppo e riparo in luoghi mitici e ancora immacolati: e infatti dopo il Friuli contadino e la Roma borgatara verranno l’Africa, l’India, e nella produzione letteraria e nel cinema tornerà a frequentare il mondo classico, i miti greci, la Palestina dei Vangeli, la grande letteratura del medioevo europeo e i fiabeschi racconti della tradizione d’Oriente.

Ma certamente Roma fu il centro della sua vita e della sua creatività, la città della sua maturità e del suo destino.

Quella che lui frequenta è ovviamente una Roma marginale e mitologica, miserabile e carnale, in quelle periferie che ancora negli anni ’50 sembrano vivere in un limbo temporale, in una sorta di preistoria, benché siano già assediate dalle sagome imponenti e cupe di una virulenta trasformazione sociale e urbanistica. Sono anni in cui l’intreccio di arcaico e di moderno irrompe, con il suo carico di inquietudine di ansia e di spaesamento, nei romanzi e nel cinema pasoliniano, nelle pagine e nelle immagini che narrano l’epica di un vitalismo condannato a soccombere: lo si vede nelle sequenze in bianco e nero di Accattone e poi di Mamma Roma, nella dolente non storia di un sottoproletariato che vive tra la miseria delle borgate e l’oscena architettura della nuova speculazione edilizia. E il realismo onirico della macchina da presa o il manierismo neo-realistico della scrittura metteranno a fuoco questo incontro-scontro tra due mondi, la città che inghiotte la periferia, il nuovo che avanza uccidendo il vecchio, e nell’universo in via di estinzione delle borgate si cominceranno a cogliere i tratti di una nuova antropologia in formazione: la nascita di una plebe piccolo-borghese, il prodotto umano, ma poi persino disumano e post-umano, di una mutazione irrimediabile.

A Roma c’è la scoperta del romanesco, della lingua parlata nelle borgate. Pasolini scrive – e Garzanti pubblica nel 1955 - Ragazzi di vita, cioè la scoperta dei corpi e del parlato di adolescenti border-line, spesso marchettari, che transitano dal mondo in cui sono cresciuti, le baracche, al mondo nuovo della modernità sviluppista, del potere del denaro, dell'individualismo borghese.

Di questo romanzo è emblematico l'episodio in cui il protagonista, il giovanissimo borgataro che tutti chiamano il Riccetto, giocando sulle sponde del Tevere, vede nel fiume una rondine con le ali impigliate a dei rami che sta affogando. Il ragazzino si tuffa in quelle acque pericolose, a rischio della propria vita, per salvarla.

Quel Riccetto, ancora così genuinamente figlio del mondo violento e immacolato delle borgate, è capace di un atto di generosità estrema per salvare un piccolo uccello. Sei anni dopo, in una Roma che sta cambiando pelle e anima, lo stesso Riccetto girerà la testa vedendo affogare nel fiume un amico di giochi. Eccolo dunque, è tutto qui il “mondo nuovo” che si manifesta in questa nuova umanità cinica, calcolatrice, indifferente ai legami sociali, che progressivamente dissipa il senso di solidarietà e quel sentimento di bellezza che rendevano le borgate, con la loro lingua teatrale e fisica, un luogo eletto di poesia.

Nel ‘59 pubblica Una vita violenta che è il tentativo di costruire una via d'uscita da quel destino che negli anni Settanta avrebbe preso il nome di omologazione: infatti il protagonista del romanzo, Tommaso Puzzilli, in tutta la prima parte della sua vita è un malandrino, un delinquente, un prostituto le cui giornate sono un crescendo di degrado e di violenza. Ed è come se fosse da sempre predestinato al carcere che infine lo accoglie. Non sappiamo che cosa gli accade tra le mura della reclusione. Ma uscito di prigione è quasi un’altra persona, un Tomasso redento, che cerca un lavoro onesto, che si iscrive al partito comunista, insomma diviene il prototipo di una risurrezione civile. Purtroppo nel frattempo si è ammalato, e anche se riesce a curarsi, non riuscirà a evitare un epilogo fatale: infatti per compiere un atto di generosità, per salvare una donna baraccata durante un’alluvione, si riammala gravemente e muore. È quasi un copione da romanzo verista: la vita che divora e viene divorata, un destino cannibale. Insomma, una profezia di morte, per un romanzo irrisolto.

Ma il punto più alto, più ricco e più noto, e direi più programmatico, della passione creativa di Pier Paolo Pasolini sarà il libro di poesie Le ceneri di Gramsci (1954). Il poemetto centrale, che intitola l’intera raccolta, è una sorta di teso e veemente crocevia degli scatti lirici, dei bisogni di “forma”, dei grovigli ideologici che innervano la confessione di una impotenza senza scampo.

Simulacro di un altro “maggio”, di un altro tempo, di un altro mondo, ecco Gramsci: quasi sospeso in una zona di confine tra la “noia patrizia” del Cimitero degli Inglesi e l’eco sfocata di “qualche colpo d’incudine dalle officine di Testaccio”. La terzina si attorciglia come una lunga sequenza funeraria. Tra silenzio sepolcrale e “brusio” sottoproletario, tra “suggestione aristocratica e mitologia popolare, “tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo”. Come una pausa di guerra, la “tregua” pasoliniana non è pacificante: è il percorrimento disperato di una “terra di nessuno”, suo possesso e sua dannazione, luogo di trasparente rappresentazione della sua crisi insanabile. Non zona franca o salvifico deserto, bensì magma estetico, zolle di scrittura, fili spinati di asperità semantiche.

La “tregua” è la poesia, scisma totalitario da quella Storia che disidentifica e minaccia l’ansia universalistica del letterato borghese (e borghese suo malgrado

“Vivo nel non volere/ del tramontato dopoguerra, amando/ il mondo che odio – nella sua miseria,/ sprezzante e perso per un oscuro scandalo/ della coscienza”.

Questi versi, nella lucidità autodiagnostica di Pasolini, sono la radiografia di un conflitto che è ferita sanguinante e non cicatrizzabile, la ferita del suo essere che resiste al suo dover essere e che rivela lo scandalo di una contraddizione senza scampo e immedicabile. Lo scandalo del contraddirsi, del suo essere, nello stesso tempo, con Gramsci e contro Gramsci. Con Gramsci, e con l’universo sociale e politico da lui simboleggiato, in un’adesione volontaristica e artificiosa. Contro Gramsci, nelle “buie viscere” di una vocazione individualistica e separata, nella resistente squisitezza di una ontologica “diversità”. La politica allora non può che essere un sentimento “giusto ma non sincero”, “astratto amore” (sono espressioni esplicite, sono parole di Pasolini, ignorate da molta parte della vulgata pasoliniana). Questo è, nelle sue stesse parole, “un oscuro scandalo della cosicneza”.

Ed ecco la domanda furiosa e sincera che il poeta rivolge alla tomba del fondatore del comunismo italiano “Sarai tu morto disadorno a chiedermi di rinunciare a questa disperata passione di essere nel mondo?” La confessione della propria collocazione intellettuale e della natura del suo sguardo e del suo sentimento incalza ancora l’icona di Gramsci:

“Del mio paterno stato traditore,/ nel pensiero, in un'ombra di azione,/ mi so ad esso attaccato nel calore/ degli istinti, dell'estetica passione;/ attratto da una vita proletaria/ a te anteriore, è per me religione/ la sua allegria, non la millenaria/ sua lotta: la sua natura, non la sua/ coscienza; è la forza originaria/ dell'uomo, che nell'atto s'è perduta,/ a darle l'ebbrezza della nostalgia,/ una luce poetica: ed altro più/ io non so dirne, che non sia/ giusto, ma non sincero, astratto/ amore, non accorante simpatia...”.

Ecco il vero oggetto della passione pasoliniana: una “vita proletaria” anteriore a Gramsci, cioè collocata prima che essa si faccia movimento organizzato e partito, adagiata in un tempo che precede la storia, percepita come sacra rappresentazione del dialetto e dell’eros di un popolo che è pura natura.

E allora l’unica vera salvezza è nell’abbandonarsi alla fenomenicità sensuale e accorante del mito che si dipana

“dove dorme/ col membro gonfio tra gli stracci di un sogno/goethiano, il giovincello ciociaro…”.

Solo l’anarchica e libertaria tautologia dell’arte, l’ateo furore della creazione (di cui parla nel poemetto Picasso), riscattano dal male della storia. L’unico possibile paradigma cognitivo, nel mondo pasoliniano, è l’adesione lirica, viscerale, linguisticamente mimetica, al “brusio” della vita, al muto “clamore” del popolo. L’unico dovere, ben oltre le angustie del prospettivismo engagé, è quello di “essere folli per essere chiari”.

Si incardinerà su tali assi la sua elaborazione di una poetica post-ermetica e post-realistica, la sua “terza via” scandita da una costante rivisitazione della tradizione lirica italiana (da Dante a Carducci a Pascoli), la sua distanza siderale dal guardaroba del dannunzianesimo e dell’irrazionalismo primonovecentesco ma anche la sua distinzione dalle retoriche del neo-realismo: e anche questa spasmodica costruzione è il segno di una estrema onestà intellettuale, di una radicale consapevolezza di sé, del proprio mestiere e del proprio contesto, una consapevolezza che fa di Pasolini un testimone straordinario e singolare del proprio tempo. Una consapevolezza che è furia di ricerca, navigazione in mare aperto, esposizione pubblica su tutti i versanti della critica intellettuale: in polemica costante contro la lingua che omologa e uccide i dialetti, contrapponendo a ciò che lui chiama petrarchismo l’esplorazione nei territori eccentrici e marginali del plurilinguismo, con l’obiettivo della riappropriazione (più esattamente: della reinvenzione) del dialetto, cioè dello spazio semantico e umorale della mitica corporalità del suo mitico popolo.

Ma contro il dialetto, che è memoria e humus della poesia, che è culto della tradizione e riparo della diversità, vi è il movimento che tutto muta, la storia che incombe: vi è anche quel “canovaccio rosso” il cui colore e la cui deontologia sono un richiamo impedito:

“Perché a questa spenta tinta di sangue,/ la mia coscienza così ciecamente resiste,/ si nasconde, quasi per un ossesso rimorso che tutta, nel fondo, la contrista?”.

Questi versi da Il pianto della scavatrice sono davvero illuminanti. È la mutazione che ferisce e il futuro s’ingravida di una oscura ansia mortuaria. E ancora:

“Piange ciò che muta, anche/ per farsi migliore. La luce/ del futuro non cessa un solo istante/ di ferirci: è qui che brucia/in ogni nostro atto quotidiano,/ angoscia anche nella fiducia/ che ci dà vita, nell’impeto gobettiano/ verso questi operai, che muti innalzano,/ nel rione dell’altro fronte umano,/ il loro rosso straccio di speranza”.

Piange ciò che muta, piange la scavatrice dello sviluppo. Di qui prenderà le mosse quella “critica regressiva della modernità”, che sarà il leitmotiv della passione polemica del Pasolini “corsaro” e “luterano” degli anni Settanta, del polemista che con spericolata innocenza propone l’abolizione della scuola e della Tv e che dinanzi alle battaglie per i diritti civili in un’Italia arretrata e clericale mette in guardia dai rischi del laicismo, della perdita del senso del sacro, diffidando di una uguaglianza che significhi livellamento generalizzato della società ai valori della borghesia. Una critica serrata e apocalittica alle “magnifiche sorti e progressive” dello sviluppismo, tanto più sorprendente quanto più solitaria e incompresa e fraintesa. E sorprendente perché antitetica a quella vischiosa apologia di una modernizzazione senza aggettivi, cioè di una modernità senza qualità, che inquinerà progressivamente la politica e la cultura, fino a penetrare e deformare l’identità della sinistra.

E tuttavia una critica, quella pasoliniana, che non prefigura alcun futuro alternativo, piuttosto appare sentimentalmente, visceralmente, esteticamente, ideologicamente rivolta al passato: “Io sono una forza del passato./ Solo nella tradizione è il mio amore”, sono solari i versi da Poesia in forma di rosa (1961-1964) che il poeta metterà in bocca a Orson Welles nel folgorante e bellissimo cortometraggio La Ricotta (1963).

Sono parole dal significato inequivoco. Se tutto muta, evidentemente non può mutare la coscienza del poeta, così geneticamente annodata al passato. Non muta uno status intellettuale nel cui viluppo manieristico di tradizione e sperimentalismo riposa una continuità di forma di coscienza che divora il suo “bisogno di storia” nelle fauci dell’estetica passione.

Il cambiamento, il “piange ciò che muta”, sconvolge la carnale ancestralità del mondo popolare (del Friuli contadino, delle borgate romane, dell’India, dell’Africa), la modernità ordina e omologa le grammatiche della riproduzione sociale secondo un dispotico criterio mono-linguistico. L’antagonismo delle differenze, che ha il suo modello archetipico nella poesia, trasmuta nel dolore e nel rimpianto. E poi nella denuncia, scandita da metafore provocatorie e cupe, dell’universo orrendo del neo-capitalismo, nel J’accuse contro le trame di potere di un classe dirigente corrotta, nel racconto ossessivo e fantasmagorico della bio-politica di un “nuovo fascismo”, di un “tecno-fascismo”.

L’Usignolo friulano che a Roma aveva creduto di ritrovare rinnovato nelle forme e nei suoni il suo mito di primigenia innocenza, che assiste dolente alla transizione sociale e antropologica dell’Italia del boom economico, che negli anni Sessanta ancora proverà ad agganciare la poesia del radicalismo cristiano nel suo Vangelo secondo Matteo, ma che già avrà squadernato dinanzi al proprio sguardo l’inclinazione piccolo-borghese dei suoi eroi popolari in “Uccellacci e uccellini”, che si identificherà nel destino di un Edipo che è la metafora della ostinata volontà di non capire il divenire della storia, che porterà a un punto di deflagrazione l’incontro tra sacro e profano con Teorema, che indicherà in Porcile la natura cannibalesca e necrofila della modernità, che legge in Medea e nella sua follia omicida la reazione mostruosa di un mondo antico che protesta contro una nuova civiltà dell’avidità, della venalità e del potere, ecco questo Pasolini è il narratore sgomento della propria inattualità, della propria estraneità, della propria irriducibilità al secolo. Troverà riparo fuggendo nella narrazione ancora capace di allegria vitalistica di un Decamerone (1971) trasposto a Napoli, nel medioevo nordico dei Racconti di Canterbury (1972), nell’erotismo fiabesco e onirico de Il fiore delle mille e una notte (1975). Ma, com’è noto, Pasolini abiurerà dai film della “Trilogia della vita” cogliendo l’assoluta contraddizione tra una esplicita intenzione di polemica anticonsumistica e il suo essersi adattata in prodotti di largo consumo come i suoi film più acclamati dal grande pubblico.

E allora la sua disperazione si fa profezia e anatema contro un mondo per contrastare il quale ci vorrebbe “una destra sublime” (dice così nell’ultimo incontro con gli studenti in una scuola di Lecce, raccolto nel libello Il Volgar’eloquio). Costruisce dantescamente il suo inferno cinematografico in Salò o le 120 giornate di Sodoma (film uscito postumo nel 1976) e si dedica febbrilmente al suo romanzo-progetto, Petrolio, pubblicato diciassette anni dopo la morte, e che rappresenta una vera enciclopedia delle ossessioni pasoliniane, con una stratificazione di stili, una mescolanza di linguaggio saggistico-documentario e lirico-letterario, che si srotola come un assedio conoscitivo attorno ai feticci e al feticismo del potere, e che sembra fotografare un espandersi della vita nella scrittura e della scrittura nella vita.

La cognizione di una perdita definitiva di tutto ciò che profuma di vita e di bellezza, l’angoscia per il “paradiso perduto” della poesia e del dialetto, la denuncia, che appare come una sorta di premonizione, della deriva criminale che tutto minaccia: ecco il Pasolini al suo epilogo. Poche ore prima dell’incontro fatale alla Stazione Termini con il “ragazzo di vita” Pino Pelosi, in una intervista con Furio Colombo, userà parole in cui si è del tutto dissolto qualsivoglia principio-speranza: “La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ma strane macchine che sbattono le une contro le altre e questa tragedia è iniziata con quell’universale e perverso sistema di educazione che forma tutti noi… Il panorama è cambiato: qui c’è voglia di uccidere, e questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale (…). L’inferno sta salendo da voi. Siamo tutti in pericolo.”

Poche ore dopo il suo corpo, come quello di un povero cristo, sarà ritrovato nel fango dell’idroscalo di Ostia.

La vita-scrittura di Pier Paolo Pasolini, eroica e dannata, si compie come una rivolta estrema, sincera fino allo spasimo, come la resistenza accanita ma impotente dell’innocenza della poesia travolta e uccisa dalla venalità pornografica e assassina della storia.

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