Teti, basandosi sulle riflessioni di studiosi, analizza la nascita del sentimento moderno della nostalgia, vista un tempo come una malattia addirittura mortale che prevedeva le più strampalate cure: nostalgia finta, nostalgia vera e patologica, vissuta e costruita; in sintesi nostalgia negativa e positiva. Tra i capitoli più interessanti del saggio, un trattatello sociologico, è quello incentrato sul rapporto tra cibo e defunti – col rito del cosiddetto consòlo in cui i parenti e i vicini della famiglia del trapassato si impegnano a sostenerla dal punto di vista alimentare nei giorni del lutto – ed anche quello titolato “Andare altrove” in cui Vito Teti puntualizza il tema dell’emigrazione, uno dei temi fondanti e ricorrenti dell’opera, la febbre di “andare all’America” che decimò il Mezzogiorno d’Italia tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Una particolare forma di nostalgia colpì quelle popolazioni – sia chi partiva sia chi restava, genti che prima di trasformarsi in “Homo migrans” non si erano di fatto mai spostate dai paesi natii e che per secoli avevano avuto “come punto di riferimento il campanile della chiesa”. Nelle duecentosettanta pagine del volume, ci sono le riflessioni dei più importanti autori calabresi sui temi del viaggio, dell’abbandono, dell’emigrazione, del ritorno, del senso di colpa del migrante e di quello di estraneità del ritornato: Saverio Strati, Franco Costabile, Francesco Perri, Corrado Alvaro (Gente in Aspromonte, 1930), e altri ancora.
E per finire, erano anni che non leggevo parole così vere e così accorte sul Sud, in queste Teti è stato grande, ve le porgo, perché io già le conservo come in un reliquiario: “ L’avventura del restare – la fatica, l’asprezza, la bellezza, l’etica della restanza – non è meno decisiva e fondante dell’avventura del viaggiare. Le due avventure sono complementari, insieme vanno colte e narrate. Restare non è stata, per tanti una scorciatoia, un atto di pigrizia, una scelta di comodità, ma un’avventura, un atto di incoscienza e forse di prodezza, una fatica e un dolore. Non si ceda alla retorica o all’enfasi, ma restare è la forma estrema del viaggiare. Restare è un’arte, un’invenzione; un esercizio che mette in crisi le retoriche delle identità locali. Restare è una diversa pratica dei luoghi e una diversa esperienza del tempo, una riconsiderazione dei ritmi e delle stagioni di vita. Restare significa contare le macerie, curare gli anziani e gli ammalati, accompagnare i defunti, custodire e consegnare ricordi e memorie, raccogliere ed affidare ad altri nomi e soprannomi, episodi di mondi scomparsi o che stanno morendo. Restare significa mantenere il sentimento dei luoghi e camminare per costruire qui e ora un mondo nuovo, anche a partire dalle rovine del vecchio. … Restare significa raccogliere i cocci, ricomporli, ricostruire con materiali antichi, tornare sui propri passi per ritrovare la strada, vedere quanto è ancora vivo quello che abbiamo creduto morto e quanto sia essenziale quello che è stato scartato dalla modernità. Nostalgie, rimpianti, risentimenti attraversano le pietre, le grotte, i ruderi, le erbe che nascondono o proteggono le rovine, le piante di fico che accompagnano e provocano la caduta delle abitazioni. Le feste che si svolgono nei paesi abbandonati e diroccati svelano questi sottili e controversi legami con i ruderi; i pellegrini di ritorno tra le rovine segnalano forse anche un’insofferenza per i non luoghi e un desiderio latente di costruire nuove forme dell’abitare”.
Vito Teti è professore ordinario di Antropologia culturale dell’Università della Calabria(Unical), dove ha fondato e dirige il Centro di iniziative e ricerche «Antropologie e Letterature del Mediterraneo». Tra le sue pubblicazioni: Il senso dei luoghi (Donzelli, 2004; III ed. 2014); Storia del peperoncino (Donzelli, 2007); La razza maledetta (Manifestolibri, 2011); Maledetto Sud (Einaudi, 2013); Pietre di pane (Quodlibet, 2014); Terra inquieta. Per un’antropologia dell’erranza meridionale (Rubbettino, 2015); Fine pasto. Il cibo che verrà (Einaudi, 2015); Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni (Donzelli, 2017).
Questo articolo è stato scritto sabato 8 Gennaio 2022 alle 11:53 nella categoria anni Cinquanta, Anni Duemila, anni Sessanta, Anni Settanta, cultura, editoria, intervista, istituti di cultura italiana, italia, libri, Ministero Pubblica Istruzione Università e Ricerca, politica culturale, Stato italiano, storia, università italiana.
Nato nel 1949, due lauree conseguite all'Università Statale La Sapienza di Roma. Allievo di Giulio Carlo Argan. Storico dell'Arte Moderna e Contemporanea, professore prima a Roma, poi a Torino, oggi a Milano. Leggi tutta la biografia Scrivi una mail a Carlo Franza